Opere selezionate

Opere selezionate

Roxan@ - Poesie in volo, raccolta dal 1995 al 2000

Utopia - Racconti e parole in libertà, antologia dal 1995 al 2000

Testi teatrali e fiabe: Prendete i bambini - L'Altro mondo possibile – Gli occhi di Frugolina

Anno 1993 - Lettura interpretativa tratta dal testo teatrale “Il Gioco” in occasione del concorso “Donne sull'orlo” a cura della Scuola Regionale di Teatro del Veneto.
Anno 1994 - Rappresentazione a Padova del testo “Prendete i bambini” nell'ambito della rassegna teatrale “Donne sull'orlo”.
Anno 1996 - Menzione speciale per la fiaba “Gli occhi di Frugolina” Concorso Europeo Omero al Salone del Libro di Torino.



domenica 1 dicembre 2013

L'uomo che avrei voluto essere



Sono sempre stato restio a raccontare a chicchessia questa storia.
Forse per paura di essere preso per visionario o pazzo, o più inconsciamente perché, ogni volta che riaffiora alla mente, provo un'oscura sensazione d'angoscia, simile a quella che deve aver provato il primo uomo comparso sulla terra, convinto che da un momento all'altro il cielo gli sarebbe piombato sulla testa.
Tutto ebbe inizio un mattino di marzo, quando, sfogliando un giornale a fumetti, mi colpì l'annuncio di un concorso letterario, incentrato su una storia di fantasmi da ambientare in una biblioteca.
Ora, dato che di mestiere faccio il giornalista, e per me scrivere pare sia una dote innata, trovai l'idea alquanto stimolante, e così mi apprestai immediatamente a comporre il mio primo racconto sugli spettri, con una spolveratina, tanto per rimanere in tema, di spirito umoristico, ossia con sano humor nero.
Ironia della sorte volle che, proprio nell'attimo fuggente della suprema ispirazione, suonassero alla porta.
E così, mentre le mie idee si libravano alte nel cielo come palloncini sfuggiti di mano, mi ritrovai con la testa completamente vuota e tra le mani un telegramma.
Telegramma proveniente da Campolungo, ridente paesello, ma perché poi ridente? Avete mai visto un paesello ridere? Dicevamo, ridente paesello, per lo più sconosciuto al mondo dei vivi, luogo d'origine dei miei nonni materni.
Quel nome risvegliò in me antichi ricordi d'infanzia, i viottoli di campagna, il carretto del gelataio, il birroccio del latte, la chiesa, la scuola, mia nonna che faceva la bidella nella scuola del paese...
Ma sì! La scuola! Come avevo fatto a non pensarci prima?
Quella vecchia scuola, coi banchi di legno, il buco per il calamaio, la gigantesca lavagna d'ardesia su cui, mentre la nonna intorno spolverava, mi divertivo a disegnare soli, casette, omini alla Mirò.
La vecchia scuola, dove andare a caccia di tesori: figurine, quaderni sgualciti dalla copertina nera, mozziconi di colori dimenticati da qualche scolaro distratto o “negligente”...
E come dimenticare quel giorno memorabile in cui la nonna, custode di tutte le chiavi come S. Pietro, aprì quell'aula rimasta sempre chiusa, proibita alla mia vista, neanche fosse stata la camera di Barbablu, e ripostiglio segreto di ogni mia fantasia infantile.
Ricordo ancora quegli alti scaffali, carichi di libri polverosi. Io, ginocchioni sulla panca di legno, per arrivare alla massiccia scrivania col ripiano verde.
Quante ore trascorsi in quel luogo, avvolto nei miei sogni di bambino da un'aura di mistero, sfogliando vecchie pagine ingiallite da un tempo che, allora, mi pareva eterno.
La biblioteca della vecchia scuola! Quale ambientazione migliore per la mia storia?
Dovevo assolutamente recarmi in quei posti, ricreare l'atmosfera di allora, tornare in quel luogo ancor pregno di sensazioni, impressioni, fantasie, scaturite dalla mente di uno, cento, mille bambini.
Non mi fu difficile riconoscere la vecchia scuola, anche se ormai decrepita, cadente, abbandonata, come una vecchia signora ottuagenaria dal volto rugoso di fitte ragnatele, e con dita adunche, abbarbicata all'edera rampicante.
Il cuore mi batteva forte mentre mi avvicinavo alla porta della biblioteca.
Chissà, se avrei ritrovato ancora l'antica scrivania, quei libri polverosi resi forse ormai illeggibili dall'incuria del tempo, degli uomini...
Uno stato di stupore indescrivibile mi colse, allorché, varcata la soglia, mi si presentò davanti agli occhi l'immagine dei miei ricordi, materializzatisi improvvisamente.
La biblioteca era completamente intatta, come io, bambino, l'avevo lasciata l'ultima volta che vi ero entrato, come se non fossero trascorsi più di trent'anni da allora.
Mi accostai, quasi con un senso di religioso rispetto, alla scrivania, e notai che sopra il ripiano era riposto un quaderno, di quelli di una volta con la copertina nera, aperto.
Sul foglio ingiallito, vergato con una grafia tipicamente infantile, si leggeva:
“Tema: L'uomo che avrei voluto essere”.
Uno strano impulso s'impadronì di me e, come uno scolaro diligente, mi sedetti alla scrivania e iniziai a svolgere il mio compito.
La situazione in cui mi ero venuto a trovare, era quanto di più grottesco mi fosse capitato nella vita, perfettamente conscio dell'assurdità di ciò che stavo facendo, ma contemporaneamente, spinto da un'energia interiore, quasi come se una mano invisibile guidasse le mie parole.
Terminato di scrivere, richiusi con cura il quadernino, e me ne andai, volgendo ancora un'ultima volta lo sguardo alla biblioteca della mia infanzia.
In quegli istanti, un marasma di pensieri sconvolgeva il mio cervello, fino a giungere alla drastica conclusione che mi ero comportato da perfetto imbecille.
Quindi, per ripristinare una minima parvenza di credibilità, decisi di entrare nel bar del paese a bermi un caffè, caffè di cui, oltretutto, sentivo fortemente il bisogno.
Nel locale, il bancone di legno era stato sostituito da un altro in formica e acciaio, anche i tavolini per fare la briscola erano scomparsi, mentre al posto del vecchio flipper si trovavano adesso i videogiochi.
Notai inoltre, che pure i capelli della barista avevano assunto una colorazione diversa rispetto all'originale, definibile tra il violaceo e l'azzurrognolo... Tutte meraviglie della tecnica moderna!
Anche lei comunque parve riconoscermi e, mentre sorseggiavo il mio caffè, mi domandò che cosa mi avesse ricondotto in quel posto, ormai dimenticato da Dio e dagli uomini.
Io, naturalmente, omettendo ogni particolare riguardo la biblioteca, le raccontai di essere tornato per motivi di lavoro, poiché dovevo scrivere un articolo sulla storia della scuola del paese.
Fu così chiacchierando, che lei mi narrò di una tragica vicenda, accaduta circa trent'anni prima, della giovane maestra del paese che, sedotta e abbandonata, si suicidò gettandosi dalla finestra della biblioteca della vecchia scuola. 
Correva voce a quel tempo in paese che, al momento dell'insano gesto, la povera ragazza aspettasse un bambino.
Questa drammatica storia mi turbò profondamente, e un greve senso di malinconia mi accompagnò per tutto il viaggio di ritorno.
Arrivato a casa, dopo una doccia rilassante, mi sedetti alla scrivania, accingendomi a riprendere il mio racconto sui fantasmi.
Mi accorsi solo in quel momento che, preso dalla frenesia dei miei ricordi, non avevo ancora aperto il telegramma.
Diceva:
"Componimento: 10 e lode. La maestra”.

venerdì 1 novembre 2013

Ufficio oggetti smarriti



Quante donne aveva avuto. 
Trapezista su reti sfondate in città diverse.
E quante parole aveva scritto. 
Le dimenticava persino sul tovagliolo del bar.
E quanti chilometri aveva percorso. 
I sedili dei treni sapevano del suo dopobarba.
E quanti nomi aveva scordato. 
A volte li cercava all'ufficio Oggetti Smarriti.
Un giorno uguale agli altri, in cui aveva perduto donna, appunti, orario ferroviario e carta d'identità, si recò come d'abitudine all'ufficio Oggetti Smarriti.
Si stupì di non ritrovare l'anziana impiegata di sempre, figura ormai parentale. 
Come un'antica zia premurosa, lei lo accompagnava al deposito della memoria e, chiacchierando allegramente, lo aiutava a recuperare tutti i suoi ricordi.
Si rivolse alla giovane donna allo sportello:
“Scusi signorina, io dovrei rintracciare varie cose che come al solito, sbadato che sono, ho smarrito”.
Ma la nuova impiegata restava muta, imperturbabile.
“Scusi, dico a lei, mi sente? Avrei urgenza di riavere tutti i miei valori.”
La ragazza sempre zitta e immobile.
“Ma insomma, mi vuole dare ascolto?! Mi aiuta o no a ritrovare la mia roba?!”
La giovane donna gli mostrò un cartello: “Sono sordomuta”.
“Cavolo! Ma proprio a me doveva capitare una così?! E adesso che faccio? Ah sì ecco, e mo’ glielo scrivo!”
Si frugò nelle tasche per cercare una penna, ma ovviamente ritrovò solo l'accendino dato per disperso un mese prima. Purtroppo le penne erano le prime ad andarsene. Che tristezza. Allora gli venne in mente di far finta di scrivere, anche se l'esibizione in estemporanea lo faceva sentire un po’ cretino.
Ma la ragazza rimaneva imperterrita.
A questo punto, preso dal panico, mandò al diavolo tutte le sue inibizioni e si produsse in uno spettacolo di mimo. Patetico.
Coi gesti cominciò a imitare la sua donna, il libro che stava scrivendo, il treno che aveva perso, il momento fatale in cui allacciandosi le scarpe gli era caduto il portafoglio. 
Accaldato, rivoli di sudore nelle rughe, cravatta di traverso, terminò lo show con un sorriso che stampò dritto in faccia alla ragazza.
Lei non mosse un muscolo del viso.
Lui scoppiò a piangere.
Non gli venne porto nemmeno un modulo di reclamo per asciugarsi le lacrime.
Rassegnato e sconfitto dalla burocrazia, voltò per sempre le spalle all'ufficio Oggetti Smarriti.
E da quel giorno si dotò di un promemoria.  

domenica 20 ottobre 2013

Libertà



AIberto guidava.
Finalmente libero, pensava.
Davanti al finestrino scorrevano prati, mucche, fattorie.
Si fermò ad urinare.
Tirò su forte col naso, si aggiustò il cavallo dei pantaloni, accese una sigaretta.
Osservò un nido di formiche che gli ricordarono sbiaditi colleghi d'ufficio.
Una bianca .farfalla dal volo drogato... 
Marzia, chissà addosso a chi smaniava, ora...
Un moscone attirato dall'acre odore del rivolo gli ronzò ai piedi.
Il cielo era a chiazze. 
Da piccolo battezzava le nuvole.
Era cresciuta forte, Celeste. 
Della madre, restò un uomo per mano a una bambina.
Alberto risalì in macchina.
L'aria condizionata gli gelava i pensieri.
Ebbe un irresistibile impulso di gridare.
Le dita abbarbicate al volante, urlò.
Il silenzio della campagna gli inchiodò lo sguardo al vetro.

martedì 15 ottobre 2013

Rosso tramonto



L'uomo nero era solo sulla spiaggia deserta.
Seduto sulla sabbia, pensava.
Ai figli, alla moglie, alla sua Africa tradita e calpestata da migliaia di bianchi.
Alla giornata carica di tappeti, dove ogni goccia di sudore, s'intreccia con le umide orme che solcano la rena.
Un gruppo di ragazzi si avvicinò: 
- Vattene, sporco negro! -
- Torna nella foresta con le scimmie! -
- Corri o muovo la frusta! - 
E l'uomo nero, la testa china, pensava.
Poi si alzò, né giovane né vecchio, alto e robusto come gli schiavi delle sue generazioni.
Pugni chiusi e nervi tesi.
Occhi profondi come un baratro senza ritorno.
I ragazzi indietreggiarono: 
- O negro che vuoi fare? -
- E' pazzo scappiamo! -
- Aiuto c'ammazza! -
Il sole specchiò l'ultimo suo raggio di sera, nell'acciaio della pistola in mano al nero.
Uno sparo e poi...
L'uomo nero cadde sulla sabbia tingendola di rosso tramonto.

giovedì 10 ottobre 2013

Zoo



La bambina se ne stava, muta, ad osservare il gorilla.
Occhi umidi, prigionieri, teneva il gorilla. 
La bambina sgranocchiava popcorn. 
Il gorilla guardava il sacchetto.
Non aveva fame, ne' sete, ne' sonno.
Voleva quel sacchetto color carta zucchero.
Soffiarci dentro e fare bum.
Il gorilla si percosse il petto coi pugni stretti.
La bambina mollò il sacchetto e lo imitò.
Il gorilla rideva. La bambina rideva.
Il gorilla piangeva. La bambina piangeva.
L'urlo del gorilla echeggiò. 
La bambina apri la gabbia.
E rimase nella gabbia attigua a giocare con chicchi di mais.

martedì 1 ottobre 2013

Bambini



- E glielo dobbiamo dire subito o quando sarà grande? -
Era il pensiero martellante nelle teste di Anna e Luca, mentre l'aereo atterrava in Cecenia.
Tra poco sarebbero divenuti rispettivamente madre e padre, grazie all'adozione internazionale, di una bambina russa.
All'istituto l'attesa si fece spasmodica, sapevano soltanto che la bambina aveva sei anni, che era bionda con gli occhi azzurri e orfana di guerra. 
In quel Paese la legge imponeva un mese di permanenza per la reciproca familiarizzazione.
Quando la porta dell'ufficio si aprì, ad entrambi il cuore sobbalzò dall'emozione.
Entrò una suora che teneva per mano due bambine uguali, stesso vestito, occhi e capelli.
Stupiti, rivolsero uno sguardo interrogativo alla religiosa. 
Ella si affrettò a spiegare che si trattava di due gemelle e che loro avrebbero dovuto scegliere quale delle due adottare.
Pochi minuti per decidere il destino di una figlia.
Anna e Luca si fissarono, guardando ancora le gemelline, tornarono a scrutarsi negli occhi e sancirono un tacito patto che li consacrava genitori due volte in un attimo solo.
Dopo due mesi di regolamentare tempo di permanenza, si ritrovarono di nuovo sull'aereo in viaggio di ritorno.
Le bambine dormivano con la testa appoggiata sulle gambe di Anna. 
Luca proteggeva con lo sguardo le sue donne.
All'arrivo c'erano i genitori di Anna ad attenderli.
Le bambine corsero incontro al nonno, abbracciandolo e baciandolo sulle guance. 
Al nonno, rude e solido uomo d'un tempo, si sciolse il cuore. 
Imbarazzato dalla sua stessa commozione, fece per solleticare ai fianchi le sorelline, ma esse si ritrassero d'un tratto intimorite.
Anna allora sollevò alle piccole le magliette, mostrando lividi sparsi intorno le pallide vite.
All'istituto usavano distribuire pizzicotti ai bambini che non stavano buoni.
Una catena di mani a formare una famiglia, e si avviarono verso l'uscita.

domenica 15 settembre 2013

Come per magia


- Mamma, che cos'è il tempo? -
- E' la notte che oscura il giorno, il cammino lento delle stagioni. L'orologio che ci dice quando è ora di alzarsi, di mangiare, di andare a dormire. -
- Mamma, ma il tempo si può fermare? -
- No, bambina mia. Vedi, il tempo è una cosa che nessuno può vedere, toccare, fermare. Il tempo passa, e tu cresci. E io, il babbo, la zia, diventiamo vecchi. Vecchi come la nonna Augusta. -
- Ma io non voglio diventare vecchia! -
- Devi capire che se non si diventa vecchi, vuol dire che si muore giovani. E allora, è meglio che la vita sia lunga il più possibile, non credi? -
- Allora, il tempo vuol dire diventare grandi, e fare tutte quelle cose che non si possono fare da piccoli?-
- Certo. Ma vuol dire anche dover andare a lavorare, sposarsi, avere dei bambini, farsi una famiglia. -
- Ma perché poi i genitori devono andare sempre al lavoro, e i loro bambini all'asilo o a scuola? E perché la nonna Augusta, che è tutta contenta quando il babbo alla domenica la porta a pranzo da noi, e mi racconta tante belle storie, alla sera, quando il babbo la riporta in quella casa per vecchietti, mi dà un bacio e mi dice: 
"Speriamo di rivederci anche la prossima domenica... Eh! Che brutta cosa diventare vecchi..." -
- Perché purtroppo la vita è fatta cosi. Non c'è mai abbastanza tempo per poter stare con chi ami. -
- Ma io, quando sarò grande, voglio stare con i miei bambini, e con te, e con il babbo. - 
- Te lo auguro, bambina mia. Che la vita per te cambi e sia diversa. -
- Di sicuro! Perché io faccio una magia e... Oplà! Fermo il tempo!- 

Marzia, era una bambina che trascorreva molte ore a fantasticare. 
Ad inventare storie, a leggere fiabe che la trasportavano d'incanto in un magico castello, su di un'isola misteriosa. 
In un mondo di fate e gnomi dove lei, principessa vestita di velluti e diademi, regnava sul destino degli uomini. 
E il mondo che lei aveva creato era un mondo buono, dove i bambini vivevano felici, la gente serena, e tutti erano ricchi e contenti. 
Dove il tempo passava giocando nei boschi e si mangiavano tante torte e gelati. 
Le malattie non esistevano più e nessuno moriva mai. 
Mica come il mondo vero. 
Che la sua mamma si alzava al mattino presto che era ancora buio, a preparare la colazione per tutti. 
Poi la svegliava. e a volte si arrabbiava con lei se non si alzava subito.
Perché diceva che era tardi, che bisognava fare in fretta.
Allora Marzia doveva buttare giù il latte tutto d'un fiato, e non sempre era tiepido o zuccherato! 
E dopo, lavarsi faccia e denti, vestirsi, pettinarsi, infine, caricata la cartella sulle spalle, correre rapidamente alla fermata dell'autobus per andare a scuola. 
Non rimaneva mai un po' di tempo per salutare tutte le sue bambole! 
Seduta vicino al finestrino, Marzia si divertiva ad osservare tutte quelle macchine che correvano per la strada. 
Con la gente che guidava tenendo gli occhi stretti, e nemmeno un sorriso. 
Marzia tornava a casa da sola dalla scuola, perché a quell'ora i suoi genitori erano ancora al lavoro. 
Mangiava quello che le aveva preparato la madre la sera prima. 
Ma non era tanto bello pranzare così, senza aver qualcuno cui poter raccontare le cose successe, e dopo qualche boccone, era già stanca di quel cibo ormai senza sapore.
Sparecchiata la tavola, si metteva a fare i compiti. 
D'estate, se finiva presto, andava a girare in bicicletta con le amiche. 
D'inverno, guardava i cartoni animati alla televisione. 
Verso sera la mamma rincasava. 
Ma non aveva mai tanta voglia di parlare con lei. 
Le chiedeva se avesse fatto i compiti e se a scuola era andato tutto bene. 
Poi, la mamma spariva nelle altre stanze a sbrigare le faccende, con Marzia che le andava dietro per mostrarle qualcosa o raccontarle un fatto divertente. 
Marzia, non riusciva mai a capire fino in fondo se la mamma fosse attenta a quello che lei le diceva oppure se, tra una mutanda stesa e un lenzuolo da piegare, facesse finta di ascoltarla e le rispondesse, solo per farla contenta. 
Più tardi, anche il babbo ritornava a casa. 
Si faceva una doccia e si sedeva in cucina a chiacchierare con la mamma, che intanto, preparava la cena. 
Il babbo a volte, quando raccontava del lavoro, diceva le parolacce e sembrava arrabbiato.
Marzia col padre parlava poco, perché lui alla sera voleva ascoltare il telegiornale. 
E dopo, era già ora di andare a letto. 
La domenica, invece, era tutto più bello! 
Si restava a dormire più a lungo, e Marzia, al risveglio, saliva sul lettone dei genitori a farsi coccolare un po'. 
La mamma, alla domenica mattina, mentre faceva le pulizie di casa cantava. 
Il babbo portava Marzia all'edicola a comprare Topolino. 
Si mangiavano un gelato, e poi andavano a prendere la nonna Augusta.
Ritornavano per l'ora di pranzo. 
Per le scale si sentiva la radio accesa. 
E quando Marzia entrava in casa, subito avvertiva l'odore del brodo e dell'arrosto appena fatti. 
Mentre la mamma spignattava in cucina, lei si leggeva il suo giornalino. 
Che buono, il pranzo della domenica! 
Marzia era felice. 
E non si stancava mai di guardare la mamma, il babbo, la nonna, seduti tutti intorno al tavolo a chiacchierare. 
Con lei, che ogni tanto rimaneva col cucchiaio a mezz'aria, ad ascoltarli. 
E la nonna che le accarezzava la testa, e le diceva: 
- Mangia, bambina mia, Che così diventi grande! -
Marzia, alla domenica, lasciava sempre il piatto vuoto. 
Al pomeriggio si usciva, tutti insieme. 
Com'era bella la mamma col vestito rosso, i capelli ben pettinati e il rossetto sulla bocca.
Anche il babbo era bello, che quando la prendeva in braccio, sapeva di dopobarba. 
E Marzia, gli teneva stretta forte la mano. 
A volte, aveva paura che i suoi genitori si volessero separare, perché ogni tanto li sentiva litigare. 
La mamma piangeva, e il babbo se ne andava sbattendo la porta. 
Parlavano di soldi. 
La mamma diceva che non ce la faceva più a fare quella vita. 
Anche il babbo gridava che era stanco. 
Marzia, rannicchiata ancor di più nel suo letto, stringeva a sé l'orso Tommy dal naso rammendato. 
Non riusciva ad addormentarsi, finché non sentiva il suo babbo ritornare a casa. 
Poi li ascoltava bisbigliare nella loro camera da letto. 
Così finalmente, riusciva a prendere sonno, cullata da quel mormorio famigliare. 
La mamma diceva, che quando manca il tempo per riposarsi, per stare insieme, per volersi bene, la gente diventa più cattiva. 
Ma che, purtroppo, il tempo non si poteva fermare. 
Marzia però ricordava, che una volta, il tempo si era fermato per davvero! 
Quando lei era finita all'ospedale, con la febbre molto alta. 
Ricordava poco di quei giorni. 
Solo i visi della mamma e del babbo, che ritrovava davanti a sé, tutte le volte che riusciva a svegliarsi da quel sonno così profondo. 
Ogni attimo che apriva gli occhi, li vedeva li di fronte. Sempre accanto a lei. 
Quindi... 
La mamma non era andata al lavoro! E il babbo, nemmeno! 
E poi... 
La chiamavano, le parlavano, le sorridevano! 
Allora... 
Voleva proprio dire che il tempo si poteva fermare! 
Come per magia.

domenica 1 settembre 2013

Vita da single



La mia bambina di sette anni da mesi mi chiede di essere battezzata.
Io, madre, single, atea, le dico: “Va bene, andiamo”.
Oggi siamo state a ciò che chiamano “l'Accoglienza”, in chiesa.
Ci sono altri quattro bimbi, molto più piccoli della mia.
Padri, madri, fratelli, padrini, madrine, chi con la nonna. 
C'è solo un'altra madre sola come me, meglio così.
Il sacerdote chiama la bimba a sé, coinvolgendola, mettendola a suo agio, a lei piace essere protagonista.
E' una specie di messa, a turno si legge un brano, tocca a me e non sono attenta, come ai tempi della scuola, la mente viaggia.
Mi ritrovo a recitare il Padre Nostro, andandolo a ripescare nella lontana memoria della mia infanzia.
Il segno della croce sulla fronte della mia bambina. 
Da ripetere come madre, e dice il sacerdote, ogni volta che si desidera, come simbolo di benedizione.
Mi piace l'idea.
La messa è finita, ci ritroviamo in canonica. 
Chiede alla bambina se la scelta del battesimo è sua o della mamma.
Lei ci pensa un attimo, e poi decisa risponde che è sua.
Spiego al prete che io sono atea, un momento di silenzio. 
Quasi mi sento tornare dodicenne.
Più per ricreare una parvenza di fede, comunico al sacerdote che il padre della bambina è cristiano  - per fortuna mi risparmia il chiedermi dov'è, ha capito - e che farò il possibile per farle frequentare il catechismo, la messa non posso essendo atea e alla domenica la bimba è affidata al padre.
Mi chiede il nome del padrino, quello della madrina, a quest'ultima ancora non avevo pensato, glielo comunicherò.
Dovrei raccontagli una vita, e non parleremmo di fede.
Faranno un incontro a casa di ognuno del battezzandi - si dice poi così? - va bene rispondo, ci saremo,  io e la mia bambina.
La bimba chiede al sacerdote com'è nato Dio.
Bella domanda.
Il prete non è pronto a rispondere al modo pragmatico a cui la bimba è abituata, noto che lei rimane perplessa.
Io, da atea, le risponderei che Dio è dentro di lei, è il mondo, che nasce dalla gioia e dal dolore...
All'uscita la bambina mi dice entusiasta: “Che bello!” e io ne sono contenta.
Io e la mia bambina, un mondo a sé.

giovedì 15 agosto 2013

Storia minimalista



Ora di cena.
Mio figlio legge, mia figlia disegna, sul tavolo della sala da pranzo.
Le cade la scatola dei colori... il vaso d'argento e vetro rotola, si ferma sul bordo del tavolo. 
Tutti immobili a guardare la scena... sono attimi, ma pare di essere alla moviola. 
Lei, io, lui, paralizzati nell'attesa del crollo. 
Il vaso cade. 
Si rompe in mille pezzi. 
Io vado verso mia figlia minacciosa. 
Lei comincia a gridare che non l'ha fatto apposta. 
Mi blocco. 
Le chiedo perché non ha frenato la caduta. Poteva. 
Nello stesso momento mi rendo conto che le medesime parole avrei dovuto rivolgerle a me stessa. 
Già, perché non l'ho fatto? Bastava allungare una mano. 
Tutti ci aspettavamo che cadesse, ed è accaduto. 
Mia figlia dice: "Mamma lo so che ci tenevi tanto, chi te lo aveva regalato?" 
Nessuno. Era della nonna paterna, ora defunta. 
Se fosse stato di mia madre, allora sì, mi avrebbe pianto il cuore. 
In fondo è solo un pezzo di passato, ossidato, che se ne va. 
La consolo. 
Alla notte, mentre lei dorme, le metto un biglietto sui vestiti pronti per la mattina "La mamma vuole molto bene alla sua brava bambina". 
Quando torno dal lavoro, lei è col padre, un disegno in risposta. 
C'è il suo nome, il Titanic, il sole e la luna che si giurano amore. 
Sorrido, e sul tavolo metto il soprammobile con l'immagine della Venere di Botticelli. 
Al posto del vaso d'argento.

sabato 10 agosto 2013

Cammeo



Una piccola donna prende per mano la sua bambina e va per botteghe.
- Scusate, volete comperare bambole? -
- No signora, non son tempi questi per vendere ninnoli. -
- Allora collane, bracciali, anelli... -
- Spiacente, per noi l'oro è merce di scambio. -
- Vi prego, almeno questo cammeo d'argento... E' un dono di nozze, sapete? -
- Grazie, non ci occorre nulla per il momento. -
La piccola donna rinchiuse i suoi ricordi nel fazzoletto.
Lenta s'incamminò con la sua bimba per mano.
Stringendo in pugno l'eredità della figlia.
Piccolo è l'uomo che lascia che accada questo.

giovedì 1 agosto 2013

Cadrà una grande stella nel mio grembo



Mille giorni al Duemila.
Che ne sarà di te, Signora di Lesbo, poeta dai versi più intrisi di humus di donna? 
Tu che hai narrato dell’essere femmina come mai uomo ha osato, di armonie di corpi e pensieri dai sapori di rose, viola e salvia?
“Quale la cosa più bella sopra la terra bruna? Ciò che s’ama. Farlo capire a tutti è così semplice!” scrivesti. 
E ancora: “Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola”.
Chissà se nel nuovo millennio saremo veramente liberi di vivere ciò che si ama. 
O se, comunque, ci ritroveremo soli, a costruire illusioni. Non fu e mai sarà, così semplice.
“È facile dare l’illusione dell’amore, l’altro ti aiuta sempre." (Anais Nin - Fuoco)
Il mondo ha sempre bisogno di crearsi dei complici.
Elena, la donna più bella, più laida, del mondo. Colei che abbandonò marito e figli per rincorrere un amore. O una effimera chimera. Lo seguì, sul mare. 
Elena, rea di aver seminato morte sulla sua terra, condannata per l’eternità a infagarne il nome, come una perenne maledizione degli dei.
Elena, troppo bella, troppo umana per essere dea, in quel tuo abbandono, in quella tua fuga, sulla tua scelta d’amore, si concentrò l’odio del mondo. Sommi poeti han scritto di te, senza conoscerti. E ai comuni mortali, nel nuovo millennio, verrà tramandato il tuo nome di donna perduta. Col sorriso beffardo dei giovani che leggono di storia.
Così come dal primo millennio, ci giunge l’eco del riso: Cassandra.
La pazza. Con le sue veggenze, profezie funeste, verità divinatorie da soffocare e rinchiudere in silenzi ovattati. Cassandra, menti da elettroshock, fino a ridurne in cenere ogni alito di pensiero. Ancora oggi fan paura. In mondovisione l’emotività, l’irrazionalità, puro spirito. Coi loro vaneggiamenti, al limite tra follia e saggezza, voci da inascoltare. Parole più pericolose di armi. Le armi uccidono, le parole procreano. E si rigenerano.
Quante Cassandre, al confine del nuovo millennio, a cui mozzare le lingue. Stupri dell’anima.
Medea, la storia delle donne, la conosceva bene.
Giovane strega, bellissima, dai poteri magici. Per amore, tradisce il suo popolo, il padre, si macchia del sangue del fratello. Dona giovinezza al suo amato e perde la sua. Invecchia. Viene abbandonata per una donna più giovane e più bella, la figlia del re.
Medea dà in escandescenze, si strappa i capelli, grida, sono le stesse donne a consigliarla di rassegnarsi, di pensare ai figli. Ma Medea non accetta il ripudio, lei che tutto ha sacrificato a un uomo. Non è legge di Dio, ne’ legge di natura, è legge di uomini. Da lei non voluta ne’ sottoscritta. Medea finge la rassegnazione, quieta, zitta, sola come morta. Ma è viva, ancora.
Lucida nella sua disperazione, coi suoi poteri magici uccide la futura sposa e il padre di lei. Medea uccide i propri figli. Perché? L’allegoria dell’infanticidio simboleggia l’estrema ribellione alle catene degli uomini, l’avvenuta liberazione da un mondo costruito dall’uomo su sua misura.
Medea, cagna rabbiosa o pazza d’amore? Donna assassina o donna assassinata? Lei, bellissima strega, fata per amore di un uomo; vecchia strega, brutta e cattiva, che fugge sopra un carro alato.
Forse nel nuovo millennio la vedremo ancora volare.
Diversa fu la sorte toccata a Penelope.
Oggi non ci sono più Penelopi. Ma donne in perpetua attesa, sì. Di un uomo, di un amore, di uno sposo.
Nel terzo millennio saremo davvero capaci di essere donne e uomini nuovi? Con la memoria del già vissuto e l’utopia nel divenire? Quanto siamo disposti a investire, o a rinunciare, in questa corsa così senza fiato?
Donne, finalmente non più muse o prostitute. E uomini, mai più eroi o vili. Ma entrambi, essenze.
Da assaporare a gocce. Come granelli di sabbia che scorrono nella clessidra. Il tempo della memoria che si dilata fino a espandersi nel futuro.
Fino a che: “Cadrà una grande stella nel mio grembo”.

lunedì 1 luglio 2013

Con lento incedere di geisha


“Vieni andiamo, guardiamo la neve fino a restarne sepolti.”
(Basho 1644-94)

L’altra metà del cielo.
Un piccolo sole d’Oriente che riflette sopra al villaggio lillipuziano, ombre color tramonto su tremule pareti di carta di riso.
Paradossalmente, pare che esse vibrino, in quel paesaggio statico da pagode illustrate, dai giardini bonsai in cui la mano dell’uomo ha miniaturizzato la natura, fermandone il tempo. Arte o stupro?
Così come ancora la terra respira dei passi felpati di bambine dai piedi fasciati, nessuna traccia da cancellare ai posteri di orme pesanti di donne mature, in cammino.
Costretto il movimento in scatti contriti, l’eterea illusione dell’uomo di controllarne la crescita, annullare vecchiaia, evitare la morte. La donna incarnata nel moto perpetuo.
E allora tra quelle pareti evanescenti di carta di riso, si sincronizza il respiro.
Aroma di the e di rosa, fruscii di seta che accompagnano il tempo che scorre, carezzando le membra. Come abbraccio materno infinito.
A piedi ignudi si va nelle viscere, dentro alla madre, umiltà liberatoria al varco della soglia.
Con piccoli sorsi, s’assapora il tempo diluito. Nel silenzio. A occhi bassi, non occorrono parole. Danzano le ciglia.
Nella casa delle bambole chi gioca alla sposa bambina dagli occhi bistrati. E si acuiscono i sensi, le dita sfiorate, un invito a seguirla.
Fuori, la metropoli impazza di luci colori e rumore.
Ove l’amore è rito, si unisce Oriente a Occidente.

sabato 1 giugno 2013

Una città per cantare



Perché stasera siamo qui, al freddo, un gelo ormai invernale, ma perché stiamo qui?
Stretti, tanti, nuvole allo stato solido, sotto un cielo nero, in un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, dove ci si prostituisce, si spaccia, a volte si muore sotto una gradinata di stadio...
Eppure siamo ancora qui, con i nostri musi lividi, riflettori di fortuna, un palco clandestino, noi, la musica, questi ragazzi della Napolì, insieme.
A battere i denti, a stringerli, a resistere, incazzati, neri, extracomunitari della burocrazia, del sistema, di un'amministrazione “progressista” retta a maggioranza da un partito che, centrosinistra nazionale, non ha pudore nell'allearsi a proposte di legge discriminatorie nei confronti degli immigrati.
Così come, localmente, non offre spazio ai giovani, se non omologati, niente cucce per i cani sciolti. 
I rifugi costano cari alla spesa pubblica. E poi è d'obbligo il tatuaggio.
Ma verrà mai quel giorno che la Signora Città si chiederà perché noi stiamo qui e qui resistiamo? 
Credo di no. Noi non abbiamo denaro, potere, voti, solo musica. Dentro. La voglia di lottare.
C'era anche Galeo in quella sera dell'autunno scorso.
Galeo, tossicodipendente, che ti abbracciava, ti baciava sulle guance, sempre sorridente e allegro.
E poi di colpo sentiva il gelo addosso e doveva correre a farsi il buco.
Ma alla fine del suo viaggio tornava comunque in mezzo a noi, a tentare di sopravvivere. 
Suonavano i 99 Posse, fuori, al freddo, perché il Comune aveva negato il Palasport ai ragazzi del Centro Sociale.
Erano i tempi in cui la sinistra istituzionale era concubina del centro cattolico in nome di alleanze politiche, sulla pelle degli immigrati.
Galeo è morto per un'overdose d'eroina mista a veleno per topi.
“Questo non e' l'unico mondo possibile” cantavano quella gelida sera i 99 Posse.
Me lo sono domandata tante volte: perché ci si droga?
Perché da bambino ti raccontano storie sempre a lieto fine, poi la notte di Natale ti svegli e scopri che Babbo Natale non è mai esistito. 
E allora Gesù Bambino piange orfano nella stalla.
Perché da ragazzo ti fanno urlare nelle piazze per la libertà, poi ti accorgi che quel neonato che russa sulla maglietta è il Che bambino. Seppellito in una fossa comune.
Perché da uomo ti fan marciare in coro per la società, poi gobbo e incanutito il bilancio del tempo ti presenta il conto. Hai consumato un solo coperto.
Perché da innamorato ti vendono parole e immagini, sesso virtuale, e poi ti violentano il cuore. Ma la legge è uguale per tutti: non c'è reato, nessun colpevole, tutti innocenti.
Perché la famiglia é quella felice del Mulino Bianco. Non importa se il torrente é radioattivo, se il ponte é crollato sotto le macerie, se la ruota stritola membra e pesci. Il Mulino è sempre più bianco. 
Perché l'infanzia, la vecchiaia, l'emarginazione, la povertà, la malattia, la solitudine sono spot di pubblicità progresso. Consigli per gli acquisti di coscienze riciclate.
Perché il fumo della sigaretta regala anelli di vita aspirate.
Perché il bicchiere di cognac annega frammenti di vetro che raschiano la gola.
Perché lo spinello in compagnia é la vera rivoluzione della nostra generazione.
Perché l'ago che ti entra in vena ti dà l'illusione di scagliare sassi sull'autostrada della tua vita. 
Perché correre impasticcati nella notte è sfidare la velocità del buio che ti acceca dalla paura.
Perché gridare in uno stadio é lo stupro collettivo di una nazione.
Perché la televisione trasmette film. 
I telegiornali, le tribune politiche, i talk show sono i film del tempo reale. 
Perché computer, videogames, Internet la rete delle reti, sono il futuro della comunicazione. 
Le droghe del duemila. Più la gente è sola e più si droga. Il business del nuovo millennio.
E quando un giorno leggeremo sulle pagine di un giornale uno strano annuncio: “A.A.A. Cercasi amore disperatamente”, avremo finalmente scoperto come si uccide un'utopia.
Galeo mi diceva:
“Vedi, il problema più grosso non è disintossicarsi, perché quando sei a quel punto, tutti ti curano, ti aiutano, ti stanno vicini… Ma una volta finita la disintossicazione, è lì che resti solo, e allora ci ricaschi”.
Ancora oggi mi chiedo: di cosa è morto Galeo?
Droga o solitudine?

mercoledì 15 maggio 2013

Alla finestra virtuale



Subject: Descrivi una foglia.
Le foglie sono di tanti colori: verdi, gialle, rosse, marroni.
Hanno tante punte, un po' come le stelle. 
Le puoi vedere, stese in fila, fitte fitte. 
Oppure in tridimensionale. 
Quando cambia il tempo, anche loro cambiano.
Cambia la forma, possono diventare automobiline, archi, puntini spaziali o quadretti scozzesi.
Puoi scegliere tra mille figure. 
Ma io, non so il perché, mi piace lasciare le foglie in tutte le stagioni, e guardarne i colori, sempre uguali, ferme, che mi fissano...  
Mi fanno un megabyte di compagnia.

Era una notte buia e tempestosa in chat.
SoloTua wrote:
Che ne pensi se una sera, rientrato da una vacanza da single, varchi la soglia di casa, fai per accendere la luce, ma non si accende! 
D'un tratto la porta sbatte violentemente alla tue spalle e nel buio più assoluto piccoli morsi ti strappano i bottoni della patta dei pantaloni. 
Unghie intriganti si aggrappano alle gambe. 
Come un ragno arrampicandosi sui peli un brivido gelido e insinuante al pube. 
Un calore umido ti invade l'ombelico. 
L'eccitazione mista a paura ti paralizza. 
Ti ritrovi supino sul pavimento e un dolce dondolio cadenzato in crescendo ti avvolge le membra.
Ansimi profondi e accelerati in preludio all'attimo sublime... 
Ti piacerebbe?

DuroPuro wrote: 
Dio quanto m'intrighi! 
Complimenti! Una donna vera, liberata, senza tanti problemi e che vive il sesso con gioia! 
Le donne in rete, finalmente! E che donne! 
Quanto sei bella, brava, bona... ahem pardon, buona.  
La donna giusta al posto giusto.  
Casomai ti mando una foto anzichenò ti telefono insomma che fai stasera?!

SoloTua wrote: 
E ritorna improvvisamente la luce. 
Qualsiasi cosa ti piaccia o non ti piaccia...
...Prima di abbandonare il tuo San Bernardo, pensa a procurargli una compagna!

venerdì 10 maggio 2013

La fata Birichina



Ho un conto in sospeso con la fata Birichina.
Perché quando nacqui io, una pigra e assolata domenica d'agosto, lei giunse accaldata e trafelata alla mia culla.
E sbadata qual era, invece di segnarmi fronte e destino con legno di nocciolo e buoni auspici di felicità e prosperità - un poco assonnata dal banchetto appena conclusosi in onore di Re Solleone nel bosco delle fate, ove gnomi, folletti ed elfi si davano appuntamento all'ombra del secolare Ciliegio - nello sporgersi ai bordi della culla per il rito propiziatorio, rotolò dal magico orecchio della fata, un nocciolo di ciliegia con cui usava adornarsi i lobi nelle fastose celebrazioni.
E mi centrò la fronte, disegnando sulle facce dei convenuti un quarto di luna da gota a gota, e sul mio stropicciato volto da neonata un ponticello tra sogno e risveglio, fantasia e realtà, mai oltrepassato... Una smorfia di stupore.
A completare l'opera della favola della vita, fungono da prologo le parole sovrappensiero dalle labbra ammiccanti d'amarena della fata Birichina: 
- Potrebbe fare di meglio... -
Come refuso letterario, quell'anatema si stampò indelebile sul diario di bordo del destino, navigando in balia delle fatali acque senza mappe. Come bussola, il caso. 
Così raccontarono gli avi. E cosi comincia la vera storia.
Mi sono sempre chiesta perché ciclicamente riecheggia dalla mia infanzia questo ancestrale monito.
Mi ricordo il metro del dottore che da sarto provetto misurava i mancati centimetri per salire alle vette dei bambini da record; quelli appiccicati sulle pareti dell'ambulatorio come una cartina stradale, con frecce, sensi unici e limiti di carico.
Oppure come la geografia al neon della mucca Carolina sull'insegna della macelleria sotto casa, una Padania posteriore così intermittente da far arrapare i bossi.
Alla stregua di una fettina di vitellone, alla bottega del dottore si veniva soppesati sulla bilancia, ove il barcaiolo dominava il dondolio del ferro sino al momento magico della confutabilità del moto perpetuo: la fusione dell'atomo in “stadera".
Tutta l'operazione veniva svolta nel più rigoroso silenzio, quasi sacrale, tra gli occhi smarriti di mia madre e il cipiglio del dottore che si accentuava quando vergava il grafico della mia evoluzione, come in un film muto, sottotitolato:
- Potrebbe fare di meglio... -
Il che per me significava intrugli colorati e malefiche pozioni da deglutire col naso arricciato fino a giungere, talvolta, all'omnia alchimia, ossia al prelievo di succo di ciliegia dalle mie linfatiche vene.
Col quale, l'apprendista stregone si sospetta, sciroppasse le sue granitine per emulare il gusto d'amarena della fata Birichina.
I giorni delle feste comandate, coi vestiti stirati addosso, si inaugurava il circo delle pulci.
Pulci bambine trasformate in foche burlone, scimmiette ballerine, caroselli di caramelle al miele.
Il babbo, tipico esemplare sbragato e mal rasato da domenica mattina, si tramutava in Principe Azzurro, sellava la lambretta, e scaricava una miniatura col berretto uso parabrezza alla giostra del parco.
Quella dei cigni. Anch'essa a farti da monito, rimembrando la fiaba del brutto anatroccolo:
- Potrebbe fare di meglio... -
La palla rotolava sempre sotto una macchina, incespicavi sullo stesso gradino, ogni cosa che toccavi era la più pura dimostrazione della legge di gravità.
Questione di magnetismo.
E il buongiorno scambiato col buonasera, perché non parli ma stai un po' zitta, per favore mi porti le ciabatte grazie prego poi preghi tu se non me le porti, stai composta mi pari una statua di sale, attenta al cane che morde sei proprio una cogliona a pestare una cacca...
Come una divinazione, che mi fulminò sulla via del catechismo, Dio vede tutto... Se potessimo udire la Sua voce, pensai, ecco l'undicesimo comandamento:
- Potrebbe fare di meglio... -
Fioretti a iosa.
La scuola. Il luogo deputato per eccellenza. Che provvede alla tua educazione, soprattutto a quella dei tuoi genitori. Formazione permanente.
All'asilo, la suora... è una bambina buona, però potrebbe mangiare di più. 
Chissà se in Paradiso le nuvole reggono il peso dei ciccioni.
In prima elementare: è una brava bambina, ma con i compagni potrebbe inserirsi di più. 
Come domandare a un architetto di inserire nel piano regolatore una soffitta. Io dalla mia, vedevo solo una lavagna di cielo.
Alle medie, l'omelia latina dei professori: potrebbe studiare di più... Ero troppo concentrata sull'astronomia dei brufoli, la chimica ormonale delle prime palpitazioni, l'epica storia della fata Birichina.
Quei ricevimenti genitori senza pasticcini delle scuole superiori, il jngle della promozione alla maturità:
- Potrebbe fare di meglio... -
Il mondo di Fantasia divorato dal Nulla. All'appello dell'Infanta Imperatrice non si può rispondere con un "Presente"!
Alice dal Paese delle Meraviglie alla scuola alberghiera. 
Peter Pan col brevetto di volo. Campanellino al liceo musicale. L'Isola che non c'è lottizzata in Club Mediterranee coi bambini sperduti affogati nella dichiarazione dei redditi. Il coccodrillo di Capitan Uncino riciclato da borsetta a Rolex.
Maggiorenne e vaccinata, col timbro dello Stato come pera matura, eccoti catapultata sul mercato del lavoro.
Al collo, da Magilla Gorilla, il cartellino del prezzo. In vetrina, saldi fuori stagione per lavoratori stagionali, liquidazioni solidificate in fondi pensione, fidando nel miracolo di San Gennaro piuttosto che nel sindacato. 
L'incubo del marcatempo, che protocolla ogni tua alba:
- Potrebbe fare di meglio... -
Il che racchiude tutto un mondo produttivo.
Ruffiani, peripatetiche, tossici del lavoro. Extracomunitari della vita. Emarginati perfettamente integrati. Moriranno contenti.
A proposito di salute... dopo la doccia, l'analisi logica dei lardarelli di grasso: dieta, palestra, meditazione, areare la stanza (solo per fumatori).
Dal medico: "Alla tua età bisogna prevenire".
Sul lettino dello psicanalista: "La depressione si vince con l'amore".
Nonostante i ticket, Scienza e specchio non mentono mai.
Entrambi, all'unanimità, pontificano: potrebbe fare di meglio...
A questo punto c'è chi si dà alla politica, evvai con le bandiere arcobaleno, o si smarrisce sulla via della New Age dimenticando le chiavi a casa, chi gioca in Borsa e perde al Lotto.
Frequentando nel contempo biblioteche, concerti, saune, agenzie di viaggi, Internet Cafè, alla ricerca dell'anima gemella.
Indiana Jones del corteggiamento e matrimonio, si tradisce e procrea sino al divorzio, ponendo cosi fine d'un tratto a interminabili giornate di grama esistenza da figli a genitori e da sposi ad amanti, scandite tutte dal medesimo metronomo: potrebbe/meglio.
Rapsodia a più voci, in programma coro di voci bianche, alle quali però in tutela dei minori, non si può rispondere per le strofe o boicottare lo spartito. 
Pronti a rifarsi una vita, alla scoperta dell'agognata e ritrovata libertà, tappa obbligata l'iscrizione a un club cittadino di single; sul pullman che porta in gita sociale ai terremotati della Valle degli Orti o del Mulino Bianco, scartando un Bacio Perugina, omaggio promozionale monodose, in controluce su carta velina si legge:
- Potrebbe fare di meglio... -
In nome dell'istinto di sopravvivenza, Madre Natura offre varie alternative: dal collezionare tentativi di suicidio allo scoutismo; dalla cucina vegetariana al cannibalismo; oltre ai corsi d'uncinetto, l'importante è comunque darsi...
All'amicizia, all'amore, al sesso... ove, soprattutto a gambe distese, finalmente regna sovrano il Caos.
Paradossalmente, la rivincita sulla vita, nell'apice in cui si sospira:
- Potrebbe fare di meglio... -
L'Altro!
Mai vendetta fu più assaporata...
Dall'ipofisi all'inguine naviga nel flipper di onde impazzite la carminia amarena di fata Birichina.
E il nocciolo? Sputato!
- Di meglio non c'è. -

mercoledì 1 maggio 2013

Gli occhi di Frugolina - fiaba



Frugolina era nata con gli occhi chiusi.
Non che fosse cieca, no, solo che non aveva mai aperto gli occhi. 
Nessuno, nemmeno la madre, conosceva il colore degli occhi di Frugolina. 
Chi diceva blu, chi verdi, chi neri, qualcuno addirittura sentenziava con tono saccente: “bianchi!”, giudizio supportato da teorie scientifiche sul non colore che li comprende tutti.
Crescendo Frugolina, che teneva sempre gli occhi ben chiusi, aveva sviluppato un sesto senso che sopperiva alla mancanza della vista. 
Sì, lei portava con somma naturalità un paio di invisibili antenne che l'aiutavano ad orientarsi nel mondo, a non inciampare per la via, a fare tutto quello che facevano gli altri bambini, quelli con gli occhi aperti.
All'inizio la mamma, il papà, la maestra, il parroco, il dottore, tutti pensarono che Frugolina avesse bisogno di un bastone o di un cane per difendersi, camminare, attraversare la strada. 
Ma ben presto si accorsero che Frugolina usava il bastone montandovi a cavalcioni come fosse un cavallo o, nel peggiore dei casi, per fare lo sgambetto a signore premurose che a tutti i costi, nonostante le sue proteste, insistevano nell'accompagnarla dall'altra parte del marciapiede.
Fu allora che la comunità pensò a un cane lupo. 
Duck venne acquistato grazie alla raccolta scolastica di montagne di carta stagnola. 
Cinque anni di maniacale collezione di uova di pasqua, che procurò alla direttrice didattica una denuncia per intossicazione collettiva da cioccolata avariata, e alla scolaresca un'ondata di dissenteria che aggravò il disavanzo delle casse comunali per opere di straordinaria manutenzione delle reti fognarie. 
Oltretutto, l'infausto atto di solidarietà provocò strascichi scandalistici a catena sulle prime pagine delle gazzette locali. 
Finto scoop sull'epidemia di salmonella scoppiata nel paese, frutto di una spettegolata del barelliere di turno al pronto soccorso e avallata dalla spiata sottobanco del bidello della scuola, talpa dopolavorista della cronaca cittadina.
Il fidato Duck, nel suo pensiero minimalista e animalista per definizione, aveva captato col suo fiuto ultrasonico le antenne di Frugolina. 
Per cui quando uscivano insieme, lui andava a cacciare il muso nel bosco in cerca di tartufi che barattava poi con succulenti bistecche di prima scelta, o si rifugiava in un cimitero di auto in demolizione da una vecchia gomma di scorta a cui s'era affezionato per fare pipì. 
Oppure seguiva l'odorosa scia di coccole dell'altra metà del cielo canino. 
E così Frugolina, leggera come libellula, correva nei prati, si arrampicava sugli alberi, rubava mele ai contadini.
Ma come faceva, direte voi, a fare tutte queste cose se stava sempre ad occhi chiusi? 
Le antenne, ragazzi, dimenticate le antenne! 
E non solo, si aiutava con l'olfatto.
Erano i profumi che l'attiravano, come ape sui fiori, e gli odori cattivi che l'avvertivano del pericolo. 
Ma non pensate che per lei profumo fosse solo quello delle boccettine, o no, profumo di buono era anche l'aroma delle lenzuola stese, il brodo di gallina della mamma, il crostino che il fornaio le regalava alla mattina... 
E l'odore brutto, quello della cattiveria, lei lo sentiva addosso alle persone, che anche se si coprivano di deodorante trasudava dai pori della pelle, e i nasi ben esercitati come il suo lo coglieva al volo!
E poi c'era il gusto. 
Con la punta della lingua assaggiava il caldo e il freddo, il dolce e l'amaro. 
Quando baciava un bambino triste per consolarlo, sentiva sulle labbra il sapore di sale delle sue lacrime.
A quanti dittatori e potenti per castigo avrebbe voluto far bere damigiane di lacrime di bambini!
E con l'udito, lei ascoltava parole, musiche, urli, risate. 
A volte il suono era troppo forte e si stringeva forte la testa tra le mani. Altre, era quasi un mormorio impercettibile. 
E allora diceva ai suoi compagni:
“Occhio ragazzi, che spesso chi soffre tanto non ha più fiato per gridare aiuto. Quindi orecchie sempre aperte e antenne ben diritte.” 
Proprio come quelle di Frugolina!
Infine teneva il tatto. 
La sensazione più bella, quel tocco magico... 
Accarezzare un cucciolo, un pulcino, la pelle di velluto di un bambino appena nato. 
Fare il contropelo a una testina di capelli rasati da poco. 
Col tatto scopriva le forme della natura, le emozioni, l'amore in ogni luogo, dimensione, spazio.
Un giorno Frugolina incontrò un uomo. 
Non era del paese. Un forestiero. 
Le offrì caramelle e la prese per mano. 
La portò nel bosco. 
Duck era a fare pipì. 
Frugolina era sola con l'uomo.
Lui le chiese:
“Perché tieni gli occhi chiusi? Hai paura di me?”
Lei gli rispose:
“Sono nata così. Con gli occhi chiusi. Ma io ho le antenne e posso dirti come sei. Sento con le orecchie che la tua voce è fredda ma non cattiva. Sento con la bocca che le tue caramelle sono dolci ma sanno troppo di zucchero. Sento con il naso che hai un odore aspro, selvatico, di muschio e terra bagnata. Sento con le mani che la tua faccia è solcata da canali riarsi. Hai bisogno di piangere.”
L'uomo pianse. 
E poi le disse:
“Io vengo da lontano. Non volevo farti del male. Volevo solo rubarti il segreto del colore dei tuoi occhi.”
Frugolina per un interminabile istante lo fissò. 
Un raggio lunare trapassò le iridi dell'uomo che cadde a terra inginocchiato.
Frugolina ritornò a casa e da quel giorno a chi le domandava il colore degli occhi, rispondeva ridendo:
“Color della luna che scappa!”.

lunedì 1 aprile 2013

La leggenda dell'eclisse di luna



- Vieni, andiamo. -
- Dove? -
- In viaggio. -
La mano si rinchiuse a valva sulla sua.
Si sedettero in riva alla spiaggia.
Raccolse una conchiglia e la portò all'orecchio.
Ogni tanto annuiva, come in una telefonata muta.
Poi cominciò a parlare:
- Vedi, tanto tempo fa c'era un ragazzino scalzo sulla sabbia. E c'era una ragazzina che disegnava soli nell'acqua.
Con la venuta delle stelle, i soli si tramutavano in dune increspate. Striscioline di carta stagnola vibranti alla voce del mare. Echi da un mondo sommerso. Mai dimenticato. Perché prima o poi si ritorna al mare. Il mare racconta.
Prendi questo legnetto, toccalo, sfregalo tra le dita. E' umido, leggine i cristalli di sale. Sai quanto ha navigato?
Viene da un bosco, da una foresta, da una quercia solitaria, è sì solo un rachitico rametto, ma trattiene un pezzo di storia, di vita. Non hai bisogno del tronco per contarne il tempo, tu ne sei l'anello.
Tuffa le mani nella sabbia, granellini ti solleticheranno, sassolini... Uno ti colpisce più degli altri. E' bello, levigato, striato di rosa. Pare una pietra preziosa.
E tu lo porterai con te, lo potrai risseppellire, scaraventare in acqua, lanciarlo in aria, ma se lo perderai, ti mancherà. Ti sembrerà di non poter aver fortuna senza di lui. Ed è solo un sassolino. Che tu però hai scelto.
Così come si amano le conchiglie, i ramoscelli, le pietruzze, tanto si adora il mare, il sole, una donna.
E' il grande mosaico della vita.
Io, uomo o donna, giovane e vecchio, amo.
Me, bambino. Te, bambina. Chi piccolo e chi grande? Mah!
E la luna stasera sorride a entrambi... Vieni, andiamo. -
- Dove? -
- Ti riporto a casa. -

venerdì 1 marzo 2013

La leggenda di Duna


Si racconta che un viandante, dopo tanto peregrinare, si perse nel deserto.
Esausto e senza forze, al sole accecante s'addormentò.
Il vento gelido della notte alzò la sabbia e lo risvegliò.
Inginocchiata accanto a lui, una figura di donna.
Le sue mani a conca gli offrivano da bere, con lo sguardo gli disse:
- Tieni, dissetati. -
Lui sfiorò con le labbra le sue mani, non sentì acqua, ma un sapore dolcissimo, rinfrescante.
- Chi sei? - le domandò.
Lei cominciò a disegnare cerchi concentrici sulla sabbia.
Al centro del più piccolo, con il dito, tracciò un punto.
Glielo indicò e sorrise.
Di giorno attraversavano il deserto, alla ricerca di ristoro. 
Cactus da dividersi con le linci.
Di notte distesi si abbracciavano, riscaldandosi ai loro stessi fremiti.
Quando il vento delle dune colmava di polvere e sabbia occhi e bocca, immobili e muti stavano, a palpebre strette, finché la tormenta cessava e a vicenda si scuotevano dai capelli i granelli di sabbia. Lievi carezze sulle ciglia.
Un giorno giunsero a un'oasi.
Si lavarono, nutrirono, e s'addormentarono alla frescura delle palme.
Al risveglio lui la guardò:
- Restiamo qui per sempre. -
Lei scosse la testa.
- Perché no? - le chiese.
Per la prima volta, gli parlò.
Narrò della vita nel deserto, di miraggi, di come il vento sollevi sabbia, e di come poi tutto ritorni sabbia.
Di quando una volta lì c'era il mare e di quando si prosciugò.
Di come nel deserto si parli con se stessi, e di come il silenzio, la distesa infinita, sia la realtà speculare, altra, del mondo.
- Nel deserto senti la sete, fino a credere di morirne. Pochi sopravvivono, c'è chi vi impazzisce, qualcuno rincorre un miraggio fino a stramazzare di sabbia dentro agli occhi, e l'ombra di un ultimo volo, gli avvoltoi.
Nel deserto sei solo, puoi dissetarti dalle mani, mai berne a sazietà.
L'oasi è un miraggio, io stessa lo sono, io sono il deserto.
E questa è la sola verità.
Non cercare il mare qui, nel deserto.
Qui trovi onde di sabbia, tempeste di sabbia, tutto è sabbia. Ora bevi per l'ultima volta e poi vai, torna nel tuo mondo. E quando avrai sete, qui troverai gocce d'acqua, mai pioggia. -
Gli prese il volto tra le mani, gli inumidì le labbra di baci.
Lui sognò il mare nel deserto.
Intorno, sabbia.

venerdì 1 febbraio 2013

Prendete i bambini


Testo teatrale, lettura interpretativa a più voci.

(Interno sera)
(Scena)
Al centro, la carcassa di un televisore con sopra un mozzicone di candela. In un angolo, il rottame di una carrozzina per bambini. Sul pavimento, di fronte al televisore, un materasso consunto, su cui giace una vecchia e sudicia bambola senza vestiti e priva di un braccio.
Una donna, avvolta in un logoro scialle nero, entra. Con un fiammifero accende la candela, si china a raccogliere la bambola. La stringe al petto, la bacia, si siede sul materasso e se la appoggia in grembo.
(da fuori campo: si ode la sigla del nuovo inno nazionale)
(voce fuori campo: uomo, speaker del telegiornale - tono professionale)
- Buonasera. Apriamo il giornale con una notizia d'agenzia appena pervenutaci. Una banda di uomini armati ha fatto irruzione in un nostro supermercato... -
(voce dello speaker in dissolvenza)
La donna raccoglie la bambola, si alza e inizia a cullarla.
(Voce della donna - Narrazione)
Era una giornata come tante al villaggio globale. Dove lavoravo, lasciavo mia figlia, facevo la spesa... Perché lì c'era proprio tutto, uffici e servizi compresi.
Avevo da poco terminato il lavoro.
Passai dal baby center per vedere se Anges fosse già sveglia. Siccome dormiva ancora, decisi di entrare al market shop.
Stavo per varcare la soglia, quando irruppero nel centro una ventina di uomini armati.
(Voce fuori campo - Uomo che grida)
- Faccia a terra! -
(Voce della donna - Narrazione)
Mi ci volle qualche istante per rendermi conto di quanto stava accadendo. D'improvviso, mi sentii afferrare un braccio e trascinare a terra. Con un impercettibile movimento del capo riuscii a dirigere lo sguardo verso la forza che mi teneva premuta la faccia sul pavimento. Vedevo un uomo sulla trentina che mi fissava minaccioso. Sentivo la sua stretta intorno al mio polso.
(Voce fuori campo - Uomo, con tono basso ma deciso)
- Non ti muovere e non fiatare! -
(Voce della donna - Narrazione)
Dall'accento si capiva che era uno straniero, appartenente all'etnia dei cosmopoliti, le popolazioni non riconosciute dal libero stato. Contratta nell'innaturale staticità del mio corpo, la mia mente rincorreva freneticamente domande, risposte, spezzoni di avvenimenti...
E mi interrogavo.
(con tono concitato)
Ma cosa vogliono? Chi sono? Perché?
(pausa - riprende con tono cantilenante)
Poi... Sentii uno di loro gridare...
(Voce fuori campo - Uomo, con tono imperioso)
- Prendete i bambini! -
(Voce della donna - Narrazione)
E tutto mi fu chiaro.
La guerra.
La guerra che massacrava uomini, donne, bambini...
In quella parte di territorio terra di nessuno, dove il quotidiano era giungere alla fine della giornata...
(pausa)
Ancora vivi.
(tono concitato, frenetico, allucinato)
E davanti agli occhi mi si proiettarono scene d'orrore: gente urlante che cadeva per le strade... un piccolo dalla gamba amputata sostenuto alla stampella...
(pausa - tono sottomesso, quasi sacrale)
L'immagine di un corpicino decapitato tra le braccia di un padre il cui grido disperato pareva echeggiasse da distanze infinite...
(pausa - tono dolente)
E le parole colte. Resoconti di massacri. Gli agghiaccianti racconti delle donne e bambine stuprate, torture, sevizie, esseri umani gettati nel crogiuolo dei maiali...
(tono in crescendo, farneticante)
E quell'uomo che mi fissava. Leggevo odio nel suo sguardo. Rabbia, rancore...
Pareva chiedermi:
(Uomo e donna a due voci)
- E tu dov'eri? Cos'hai fatto per fermare la barbarie?
Tu che continuavi a ridere, a mangiare, a vivere. Tu che condannavi questa sporca guerra, dal tuo nido protetto di pace. Tu così civile, così umana, così serena... -
(Voce fuori campo - Uomo, con rabbia)
E a me hanno bruciato la casa, hanno ammazzato i fratelli. Anch'io vivevo un tempo in una moderna città. Dove la gente lavorava, faceva l'amore, cresceva i figli... Ora, tutto è coperto di sangue. Il sangue dei miei genitori, dei miei bambini, della mia donna...
(pausa - riprende con tono più calmo)
L'ho vista, sai, la mia donna. Dopo.
(tono in crescendo - quasi urlato)
Coperta di fango, di sperma, di merda... Le gambe aperte. Un buco nero riempito di sangue. Sventrata. Ha visto i suoi figli morire. La mia bambina ha sentito implorare. Gridare.
(tono cantilenante)
E gridava, gridava, chiamava la mamma...
(lunga pausa)
Poi, più nulla. Soltanto il terrore negli occhi di morta. E il mio ragazzo, così l'ho trovato. Buttato addosso a quel corpicino... Così l'ho trovato.
(gridando)
Col collo spezzato!
(pausa - con tono implorante)
E tu, dov'eri?
(Voce fuori campo: Uomo, con tono imperioso)
- Prendete i bambini! -
(Voce della donna - con tono dolente)
Comincio a piangere, poi a singhiozzare. No! I bambini no! Non potete fare questo! Mi muovo di scatto. L'uomo mi serra il polso in una morsa d'acciaio. E mi fissa. Lo guardo, l'imploro con gli occhi, son mute parole le lacrime.
(con tono implorante)
Non prendete i bambini. Non potete fare quello che hanno fatto a voi... Mio Dio! Ma dov'è Dio? Perché proprio i bambini? Loro non hanno colpa...
(La donna stringe convulsamente la bambola a sé - con urlo straziante)
- Nooo... La mia bambina nooo... -
(Riprende a cullarla - con tono cantilenante)
E lui, mi risponde con gli occhi. E ascolto il dolore. Lo stesso vibrante che è in me. Infiniti perché, cercando una ragione alla follia, quando ragione alla follia non c'è.
(pausa)
E lui mi racconta, tacendo, di sé. E' come incontrarsi al caffè. E se non fosse per questa guerra assurda, forse, ci saremmo potuti incontrare davvero a bere un caffè. A parlare del tempo, del governo, di vita e speranza...
(pausa)
Ma qui, adesso, Dio è morto. Ogni speranza dispersa, la vita stessa, finita.
(La donna stringe forte al petto la bambola - con tono allucinato)
Vedo passare un uomo che tiene in braccio la mia bambina. Vorrei chiamarla. Mi esce solo pianto. Penso che non le hanno messo neppure la vestina. E' appena guarita dall'influenza... Come faranno a curarla, a cullarla?
(pausa)
Oramai singhiozzo solamente. E l'uomo mi stringe più forte la mano.
(con tono trasognato)
Sì... Adesso la mano! E nei suoi occhi non leggo più odio, rabbia, rancore. Mi stringe la mano per farmi coraggio. Mi stringe la mano come fosse il mio uomo, il padre dei miei figli... E mi sta tenendo forte la mano, come alla donna che ha partorito i figli suoi.
(pausa - carica drammatica)
E io mi ci aggrappo, a questa sua mano. Come un'ultima speranza di vita. D'umanità.
La donna scruta lontano. Tiene la bambola appiccicata al seno quasi a soffocarla. Con voce cantilenante, pare che sussurri una ninna nanna:
- E seguo con lo sguardo i camion che portano via i bambini. La mia bambina... L'Uomo. -
(Voce fuori campo: uomo, lo speaker del telegiornale - tono enfatico)
- Per questa sera è tutto. Vi auguriamo la buonanotte e arrivederci a domani. -
(da fuori campo: in sottofondo, risuona l'inno nazionale)
La donna si volta lentamente. Teneramente adagia la bambola sul materasso. La copre con lo scialle. Con un soffio, spegne la candela.

Sipario